Churchill

Sir Winston, primo ministro di sua Maestà

di Fabrizio Vignati

Celebrato come un condottiero della libertà nel secondo dopoguerra, discusso dalla vulgata revisionista negli anni Sessanta, oggi è nuovamente assurto a modello di leadership politica. È Winston Churchill, l’uomo che si oppose all’avanzata del Terzo Reich.

Elegante gessato fumo di Londra, bombetta nera ben calcata sul volto, sguardo arcigno e un po’ corrugato, bocca semiaperta in un sorriso sornione da cui spunta l’immancabile sigaro avana… chiunque, ancora oggi, riconoscerebbe l’immagine di Winston Churchill: ricordato e descritto, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, come un grande leader e un coraggioso condottiero, simbolo di un Paese che aveva osato resistere da solo contro la schiacciante potenza del Terzo Reich, ma poi, a partire dagli anni Sessanta, messo un po’ in secondo piano dall’implacabile bisturi del revisionismo storico. Oggi, tuttavia, nel giudizio degli storici prevalgono nuovamente gli aspetti positivi, come testimoniano due recenti biografie: John Lukács, professore di storia a Philadelphia, nel suo Churchill. Visionario, statista, storico (Corbaccio, 2004, 186 p., euro 16,50), attraverso un piacevole viaggio tra personaggi, dialoghi, aneddoti ed episodi ignoti o poco conosciuti, delinea il profilo di uno statista animato da grandi passioni e capace di una forte tensione ideale e, sfatando un consolidato luogo comune, mostra come – pur essendo il fautore di uno speciale rapporto del suo paese con gli Stati Uniti – Churchill fu anche profondamente europeo e filofrancese. Anche Antonio Spinosa, giornalista e scrittore italiano che si dedica da anni alla rivisitazione e alla reinterpretazione di eventi e personaggi della storia, nella sua biografia intitolata Churchill. Il nemico degli italiani (Oscar Storia Mondadori, 2002, 332 p., euro 8,40) dedica particolare attenzione al rapporto di Churchill con l’Italia e con Mussolini, prima ammirato e poi combattuto accanitamente, ricostruendo anche la storia del controverso carteggio tra il dittatore italiano e il premier britannico.

Un pragmatico al servizio della Corona

Emerge così il ritratto di un uomo che a soli 26 anni, dopo alcuni brillanti e precoci successi come militare e, insieme, come corrispondente di guerra per prestigiose testate londinesi, entrò nel parlamento britannico per uscirvi 64 anni più tardi, dopo avere ricoperto svariate cariche ministeriali ed essere stato – per quasi nove anni – Primo Ministro di Sua Maestà. Uno statista la cui carriera fu coronata da una solenne cerimonia al castello di Windsor durante la quale venne nominato Sir dalla Regina Elisabetta e che, quando morì nel 1965 all’età di 91 anni, il suo funerale – per onori tributati e per affluenza di popolo – fu paragonabile solo a quelli dei membri della corona inglese.

Nella sua lunga vita politica, mosso da un forte senso pragmatico, passò dalle file dei Conservatori a quelle dei Liberali per poi ritornare, dopo quasi un ventennio, nuovamente nel Partito Conservatore: a chi lo accusava di trasformismo rispondeva che “chi non cambia idea di fronte ai fatti nuovi della vita vale ben poco”.

I suoi esordi come politico, soprattutto se giudicati a posteriori, non furono però sempre lungimiranti e coronati da successo. Un recente studio di Christopher Catherwood, professore di storia all’università di Cambridge e consulente strategico di Tony Blair, intitolato La follia di Churchill. L’invenzione dell’Iraq (Corbaccio, 2005, 286 p., € 18,00),  mostra come Churchill, quando negli anni Venti era Segretario per le colonie, commise un errore fatale che avrebbe avuto ripercussioni nefaste fino ai giorni nostri: fu il regista della nascita, dalle rovine dell’impero ottomano, di uno stato ibrido – l’attuale Iraq – composto di kurdi, sciiti e sunniti e governato dal leader hashemita Feisal, che non aveva alcun rapporto con quel territorio, ma che venne insediato per dare un “contentino” agli hashemiti dopo aver promesso loro la Siria e averla affidata invece al mandato francese. Una decisione gravida di conseguenze: nel 1958, infatti, il governo di Feisal fu rovesciato da un colpo di stato cui seguirono regimi sanguinari culminati poi con Saddam Hussein.

La battaglia contro il totalitarismo

Globalmente, però, la politica di Churchill è stata una continua affermazione e una tenace difesa dei valori liberali e democratici contro ogni forma di totalitarismo. Alla fine della prima guerra mondiale, infatti, condannò aspramente la rivoluzione d’ottobre e lo sterminio della famiglia dello zar, ma questo suo fondamentale e mai celato anticomunismo non gli impedì, tuttavia, di allearsi con Stalin due decenni dopo per combattere i mali che lui riteneva ancora peggiori per la sopravvivenza della democrazia e della libertà in Europa: il fascismo e il nazismo.

La sua fama come statista raggiunse però l’apice durante la seconda guerra mondiale. Nel 1940, dopo alcuni anni di dura opposizione alla politica governativa di appeasement, di accondiscendenza, nei confronti della politica militarista ed espansionista di Hitler, fu chiamato da re Giorgio VI alla guida dell’esecutivo. Memorabile fu il suo discorso di insediamento alla Camera dei Comuni, diffuso via radio. Davanti a un paese in guerra, terrorizzato dall’inarrestabile avanzata dei nazisti in Europa, esclamò: “Inglesi, non ho da offrirvi che sangue, sudore, fatica e lacrime”. Annunciò che si proponeva di condurre una guerra “contro una mostruosa tirannia, mai superata nel buio e miserevole catalogo del crimine umano” e aggiunse “Quali i nostri scopi?, mi domandate. Vi rispondo con una sola parola: Vittoria! Vittoria a ogni costo, lunga e dura che sia la strada per conseguirla”. Da quel momento la sua popolarità tra i cittadini del Regno Unito crebbe a dismisura e lui prese a salutarli con l’indice e il medio della mano, a forma di “V”, come dire “Victory!”, consegnando un messaggio di speranza ad un popolo duramente colpito dai bombardamenti della Luftwaffe.

Fu altresì la sua abilità diplomatica a tessere una solida alleanza con il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, col quale amava passeggiare spingendo personalmente la sua sedia a rotelle mentre insieme delineavano le strategie di intervento alleate, e con l’amico-nemico di sempre, quello Josif Stalin di cui non sopportava né l’ideologia né la sanguinaria e illiberale politica interna, ma di cui aveva assoluto bisogno per sconfiggere le armate naziste. Insieme a loro, in un albergo di Yalta in Crimea, disegnò la carta geografica dell’Europa post-bellica e studiò le mosse per la capitolazione definitiva delle forze dell’Asse.

Nel 1945, la fine di quella guerra che Churchill aveva contribuito a vincere e che lo vedeva totalmente immerso nella ridisegnazione del nuovo ordine mondiale, lo trovò però del tutto impreparato nella politica interna. Alle elezioni fu pesantemente sconfitto e dovette cedere il testimone ad un esecutivo più attento ai bisogni quotidiani di una nazione stremata dalla guerra. Tornò comunque al potere tra il ’51 e il ’55, forse più per mancanza di validi avversari che per forza personale, ma – ormai ottantenne – era l’ombra dell’uomo che aveva simboleggiato la resistenza della civiltà libera contro l’aggressione nazista.

L’intuizione del confronto Est-Ovest

In compenso gli anni del dopoguerra furono per lui i più prolifici dal punto di vista intellettuale. Già nel ’46 tenne una famosa conferenza a Fulton nel Missouri, dove – intuendo precocemente la forte contrapposizione che avrebbe caratterizzato la politica europea del successivo mezzo secolo – ebbe a osservare: “Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico è calata una cortina di ferro (iron courteen) a dividere il continente. Dietro di essa si trovano tutte le capitali degli antichi Stati d’Europa: Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest, Sofia. Queste città famose e le popolazioni di quei paesi sono ora soggette alla sfera sovietica, al controllo di Mosca”.

Come già aveva fatto in passato, quando – per le alterne vicende della politica – si era trovato lontano dalle stanze del potere, Churchill si dedicava alle sue vere passioni: la scrittura e la pittura. La prima, che gli valse il Premio Nobel per la Letteratura nel 1953, lo portò a pubblicare numerosissimi volumi, tra cui spicca una poderosa Storia della Seconda Guerra Mondiale. La pittura, invece – insieme all’amore e alla devozione della moglie Clementine – fu l’unico vero antidoto per la sua ciclica depressione: il black dog, il “cane nero” – come la chiamava abitualmente – che lo portò talvolta anche ad accarezzare propositi suicidi.

In tutta la sua vita, però, fu sempre dotato di un umorismo acuto, spesso sconfinante nel sarcasmo. Una sera, quando – Premier per la seconda volta nonostante avesse già superato gli ottant’anni – percorreva stancamente i corridoi della Camera, un deputato disse sottovoce a un collega: “E’ proprio vero quanto si dice: il Premier è davvero rimbambito”. Churchill, proseguendo tranquillamente il suo cammino, borbottò: “Sì, dicono che stia anche diventando sordo”.

L’articolo è reperibile in: VIGNATI, F., Sir Winston, primo ministro di Sua Maestà, in “Linea Diretta Club”, n° 62, Torino 2005, pag. 38-40