De Gasperi e Berlinguer

Alcide ed Enrico, politici d’altri tempi

di Fabrizio Vignati

Salerno, giugno 1944. Per ragioni di sicurezza Villa Guariglia – un palazzo barocco sul mare, immerso nel verde – divenne la residenza dei ministri del nuovo governo presieduto da Ivanoe Bonomi e dei loro famigliari. Nei corridoi e nei giardini di quella «comune» di rappresentanti dei partiti del CLN, si incontrarono per la prima volta Alcide De Gasperi, allora ministro degli Esteri, ed un giovanissimo Enrico Berlinguer, al seguito dello zio Stefano Siglienti, ministro delle Finanze. Sono entrambi stati i protagonisti di due stagioni politiche – cronologicamente successive e assai diverse tra loro – cruciali per la vita democratica dell’Italia. E sessanta anni dopo quel primo fortuito incontro, si sono idealmente ritrovati negli anniversari del 2004: 50 anni dalla morte di De Gasperi e 20 da quella del Segretario del PCI.

Da quel momento si è assistito ad un proliferare di libri (ben 20 titoli dedicati allo statista trentino e una decina a Berlinguer), film, dvd, mostre e convegni. Una curiosità non certo ascrivibile al mero interesse storiografico o partitico, ma fondata sulla percezione che – a prescindere da schieramenti e ideologie – entrambi hanno incarnato un modello del «fare politica» che oggi appare sempre più lontano, e purtroppo non solo cronologicamente. Alto senso dello Stato e delle Istituzioni, assenza di interessi personalistici, sincero spirito democratico, per cui l’oppositore politico è un avversario da battere e mai un nemico da annientare, grande capacità di sacrificio e abnegazione, forte carisma personale accompagnato da poca attenzione per l’immagine mediatica, fanno di entrambi un’icona di «virtù politica» a cui oggi si guarda da più parti con sempre crescente nostalgia.

A De Gasperi l’Italia deve la rinascita economica dalle ceneri della guerra – attuata attraverso la riforma agraria e tributaria, l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno e dell’INA-casa per la ricostruzione edilizia – e le premesse per quello che verrà definito il «miracolo italiano». Ma soprattutto il Paese gli deve la riabilitazione internazionale – ottenuta anche grazie alla sua figura e al suo prestigio personale – fin dalla conferenza di Pace di Parigi del 1946. “Prendendo la parola davanti a questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”: aperto da queste celebri parole, in cui c’è tutto l’uomo De Gasperi, l’intervento del premier italiano suscitò una tale positiva impressione sulla delegazione americana, che – dopo un viaggio negli USA nel 1947 – all’Italia furono accordati insperati aiuti politici ed economici. A lui si deve anche la firma del Trattato di Pace, da molti avversato per le gravi clausole che conteneva, e che – soprattutto a causa delle vicende internazionali caratterizzate dal delinearsi di due blocchi contrapposti attorno a Usa e Urss – ebbe come conseguenza la crisi di governo e l’uscita del blocco social-comunista dalla maggioranza. De Gasperi inaugurò allora gli anni del «centrismo democratico», esperienza politica moderata – caratterizzata dall’equidistanza dalle sinistre marxiste e filosovietiche e dalla destra monarchica e neofascista – in cui però seppe sempre tenere aperto il dialogo, a volte aspro ma sempre franco, con le opposizioni. E con esse nel 1947 arrivò – anche grazie all’alto senso di responsabilità di Togliatti e Nenni – all’approvazione della Costituzione repubblicana, equilibrato punto di incontro tra le due tradizioni culturali di massa del Paese: quella cattolico-popolare e quella social-comunista.

L’uomo che si apprestava a chiedere il consenso della maggioranza del Paese nelle decisive elezioni del 18 aprile 1948, era nato a Pieve Tesino, in provincia di Trento nel lontano 1881. Dopo la laurea in filosofia all’università di Vienna, era andato a dirigere il quotidiano La voce cattolica, organo della diocesi tridentina, e, come membro dell’Unione politica popolare (la DC austriaca) era entrato prima nel consiglio comunale di Trento e poi nel Parlamento austriaco, battendosi a favore dei diritti degli Italiani soggetti all’Austria. Nel primo dopoguerra fu tra i primi ad aderire al Partito Popolare di don Sturzo, nelle cui liste venne eletto deputato nel 1921. Due anni dopo fu chiamato alla segreteria del partito, che – incurante della violenta campagna denigratoria dei fascisti – guidò su posizioni nettamente antifasciste, soprattutto nei mesi successivi al delitto Matteotti. Dopo lo scioglimento del partito, fu arrestato e condannato a sei anni di reclusione.

Graziato dopo 16 mesi di carcere, nel 1929 venne assunto alla Biblioteca vaticana come semplice impiegato, con uno stipendio che a stento gli consentì di mantenere la moglie e le quattro figlie. Dal 1942 iniziò a prender parte alle riunioni clandestine di esponenti dei partiti antifascisti, scrivendo le Idee ricostruttive della democrazia cristiana, atto di nascita del nuovo partito cattolico. Segretario della DC, nel 1944, come detto, fu ministro nei gabinetti Bonomi e Parri e, nel 1945, venne eletto Presidente del Consiglio, carica che ricoprì ininterrottamente fino al 1953.

Dopo la netta vittoria delle elezioni dell’aprile 1948, svoltesi in un clima di pesante contrapposizione civile e sociale, De Gasperi diede alla politica italiana un sempre più vasto respiro internazionale, intenzionato a garantire all’Italia una chiara collocazione nel blocco anti-sovietico e a dar vita una comunità politica europea. Partecipò quindi al primo Congresso dell’Aja, per creare un’Assemblea legislativa europea, nel 1949 sancì, duramente avversato dalle sinistre, l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico e all’OECE, assicurando al Paese la via della democrazia occidentale. Negli anni successivi, lavorò alacremente con Schuman e Adenauer all’integrazione europea, segnalandosi sempre più come uno dei leader delle istituzioni comunitarie: nel 1951 vide nascere la CECA, di cui fu il primo Presidente, e ripose forti speranze nella realizzazione della Comunità Europea di Difesa, che però purtroppo venne respinta dal voto francese appena dieci giorni dopo la sua morte.

Le elezioni del 1953, regolate da una legge elettorale maggioritaria, largamente avversata in parlamento e nel paese (venne chiamata «legge truffa»), videro una diminuzione di voti della DC. Fallito il tentativo di dar vita a un nuovo ministero monocolore, lasciò la Presidenza del Consiglio e – sebbene nominato Presidente della DC – abbandonò la politica attiva. La notte del 19 agosto 1954 morì nella sua casa a Sella di Valsugana in seguito ad un attacco cardiaco: ai funerali – seguitissimi – ricorda la figlia Romana, c’era la “folla silenziosa della povera gente che lo aveva amato”.

E la sua cerimonia di sepoltura fu superata – in termini di partecipazione di folla e commozione del Paese, anche da parte degli avversari – forse solo da quella di Enrico Berlinguer. Il leader del PCI era stato colto da ictus cerebrale durante un comizio elettorale a Padova nel giugno del 1984 ed era morto pochi giorni dopo: quel «bagno di folla» era la testimonianza che quell’uomo dall’aspetto semplice e quasi dimesso, con le occhiaie e le rughe profonde, aveva occupato un posto speciale nel cuore del popolo comunista e non solo.

L’Italia aveva cominciato a confrontarsi con Berlinguer nel 1973 quando, da poco succeduto a Luigi Longo nel ruolo di Segretario Generale del PCI, pubblicò su Rinascita tre articoli di «riflessione sui fatti del Cile» – recente teatro del golpe fascista di Pinochet – nei quali propose un «nuovo corso» nella politica del partito e, per la prima volta, lanciò la formula del «compromesso storico». Erroneamente interpretato come un accordo parlamentare consociativo, nella visione di Berlinguer esso era invece l’azione concordata delle due più importanti forze di massa del paese, i cattolici e i comunisti, per rispondere alle pressanti richieste di modernizzazione della società civile italiana a cavallo degli anni ’60 e ‘70.

La traduzione nella pratica di questo tentativo di superare, in Italia, la politica mondiale dei blocchi contrapposti non fu certo facile: Berlinguer e Aldo Moro – allora Presidente della DC – non poterono andare, nel luglio del 1976, oltre un Governo con l’astensione del PCI (la famosa «non sfiducia») in nome di una politica di «solidarietà nazionale». Formula che poi ebbe vita breve e drammatica, venendo affondata – nella primavera del 1978 – dal rapimento e dall’uccisione di Moro, con le conseguanti dimissioni dei parlamentari comunisti dal Governo. Anche se sostanzialmente fallito, era però stato un convinto tentativo – nello spirito della Costituente – di conciliare il Paese senza cancellare le reciproche differenze delle parti in campo: una scelta coraggiosa, pagata a caro prezzo, per fare emergere l’Italia da quella «democrazia bloccata» che era la diretta conseguenza dello scenario internazionale.

Berlinguer era arrivato a quel fondamentale appuntamento politico dopo una precoce e rapida carriera di funzionario di partito. Era nato nel 1922 a Sassari in una famiglia aristocratica e antifascista (il padre Mario, avvocato, era deputato nelle file del movimento di Giovanni Amendola), e si era iscritto al PCI già nel 1943, diventando Segretario della sezione giovanile locale. Trasferitosi a Roma, percorse tutte le tappe del cursus honorum di partito: Segretario dei giovani comunisti (FGCI) dal ’49 al ‘56, la Direzione Nazionale e poi la Segreteria, l’elezione, nel 1969, a Vice Segretario e finalmente, tre anni dopo, a Segretario Nazionale.

Consumata la crisi del «compromesso storico», Berlinguer il 26 settembre 1980 si trovava a Torino, davanti ai cancelli della Fiat, con gli operai in lotta contro i licenziamenti e la cassa integrazione. Sollecitato dalla domanda di un sindacalista, fu costretto dal suo ruolo a confermare agli operai l’appoggio totale del PCI alle loro iniziative di lotta, anche nella remota ipotesi di un’occupazione delle fabbriche: una dichiarazione che scatenò forti reazioni nell’opinione pubblica, culminate nella cosiddetta «Marcia dei quarantamila». E pochi mesi dopo, arrivò il brusco cambiamento di linea politica: in una conferenza stampa televisiva Berlinguer dichiarava “esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”, aprendo così una nuova fase politica, connotata dall’ambigua formula dell’«alternativa democratica».

Nei fatti questa svolta si concretizzò innanzitutto in un radicale rifiuto della socialdemocrazia, soprattutto nella versione italiana rappresentata dal PSI di Bettino Craxi, verso cui vi fu sempre un palese antagonismo, apertamente ricambiato. E poi nella denuncia della «questione morale» come centrale per il Paese: “i partiti hanno degenerato”, dichiarò Berlinguer in una famosa intervista del 1981, “e questa è l’origine dei malanni d’Italia […]: sono soprattutto macchine di potere e di clientela”. Da questa denuncia derivava per il PCI la missione politica come «forza diversa», orgogliosa della sua «superiorità morale»: un’intuizione che, se per un verso fu una formidabile anticipazione del dibattito seguito agli anni di Tangentopoli, tuttavia allora ebbe la pesante conseguenza dell’isolamento politico e di una certa disaffezione dell’elettorato. Gli ultimi anni dell’attività politica di Berlinguer coincisero così con una fase di «stallo» per il comunismo italiano – e più in generale per la socialdemocrazia – che necessitava una trasformazione radicale, che – per ragioni internazionali – sarebbe stata possibile solo dopo il 1989.

De Gasperi e Berlinguer incarnano due esperienze storico-politiche profondamente diverse, spesso difficili da confrontare: Presidente del Consiglio per 9 anni il primo, potè esercitare un influsso sicuramente maggiore sui destini del Paese rispetto al secondo, per oltre un decennio leader del maggior partito di opposizione. Entrambi però hanno lasciato in eredità all’Italia un modo di vivere la politica che – forse troppo prematuramente – è stato consegnato alle pagine immortali della storia.

 

DE GASPERI. LIBRI, MOSTRE, DVD E INTERNET

La migliore biografia sullo statista trentino resta ancora “De Gasperi. Ritratto di uno statista” – ripubblicata di recente negli “Oscar storia” Mondadori (333 pag., € 8,80) e nelle “Biografie del ‘900” di Repubblica – in cui la più preziosa collaboratrice di Alcide De Gasperi – la figlia Maria Romana – traccia un ritratto del padre attingendo a un ricco materiale documentario (appunti, lettere, discorsi e articoli) e, insieme, al ricordo di un’esperienza personale e quotidiana. Grande risonanza ha avuto la mostra internazionale del 2004, curata da Maria Romana De Gasperi e Pier Luigi Ballini, intitolata “Alcide De Gasperi. Un europeo venuto dal futuro” (il catalogo è stato pubblicato da Rubettino: 246 p., € 30), per  indicare la modernità delle idee e del progetto politico, sia per la società italiana sia per quella europea, di un uomo che, pur interpretando il suo tempo, ne sapeva vedere e proiettare nel futuro la completa realizzazione. Molto seguita dal grande pubblico è stata anche la fiction “De Gasperi, l’uomo della speranza”, andata in onda su Raiuno nello scorso aprile e ora disponibile in DVD (Clan 2005, durata 205 min., 2 Dvd, € 26.61), dove la regista Liliana Cavani, partendo dagli ultimi giorni del grande statista italiano (interpretato da un ottimo Fabrizio Gifuni) compie un viaggio a ritroso nella sua vita umana e politica. Da segnalare, infine, anche l’interessante portale “Alcide De Gasperi nella storia d’Europa” (www.degasperi.net), che ha permesso di trasferire nel mondo web un importante progetto di ricerca promosso dall’Istituto Luigi Sturzo.

BERLINGUER. LIBRI, MOSTRE, DVD E INTERNET

Nella selva di scritti apparsi di recente su Enrico Berlinguer, si distinguono Giuseppe Fiore – vicedirettore del Tg2 e direttore di “Paese Sera”, nonché senatore della Sinistra Indipendente – che nella sua “Vita di Enrico Berlinguer” (Laterza, 2004, XII-526 p., € 18), traccia un ritratto vivace e appassionato di questo protagonista indimenticabile della vita politica italiana, e Chiara Valentini, che in “Berlinguer. L’eredità difficile” (Editori Riuniti, 2004, 415 p., € 18), ricostruisce le idee, le passioni, gli errori e i successi di Enrico Berlinguer, attingendo a documenti inediti, alle testimonianze dei maggiori dirigenti politici dell’epoca, degli amici e dei familiari. Curiosa la ricerca di Giovanni Fasanella e Corrado Incerti, entrambi giornalisti di “Panorama” che in Sofia 1973. Berlinguer deve morire (Fazi, 2005, 120 pag., 11 €.) raccontano i retroscena del presunto attentato a Berlinguer, mascherato da incidente stradale, organizzato da KGB e servizi bulgari, quando il 3 ottobre 1973 era diretto all’aeroporto di Sofia al termine di una burrascosa visita ufficiale. Interessanti anche i contributi di alcuni «eredi» di Berlinguer, come Massimo D’Alema (A Mosca l’ultima volta. Enrico Berlinguer e il 1984, Donzelli, 2004, 143 pag., € 12,50) che racconta di quando, giovane segretario regionale della Puglia, accompagnò Berlinguer a Mosca, per i funerali di Jurij Andropov, o Walter Veltroni (La sfida interrotta. Le idee di Enrico Berlinguer, Baldini Castaldi Dalai, 2004, 211 pag., € 12,60), che cerca di scoprire ciò che di esemplare, unico e valido ancora resta dell’eredità politica del segretario del PCI.. Molto interessante, infine, la ricerca compiuta negli archivi cinematografici e televisivi da Ansano Giannarelli che, nel dvd Berlinguer. La sua stagione (Valter Casini Editore, 2005, € 19,90), ci restituisce una serie di immagini originali, capaci di mettere in risalto gli aspetti che hanno contraddistinto la sua esperienza umana e politica.

Pubblicato, parzialmente riadattato, in: VIGNATI, F., De Gasperi, il leader di un paese europeo, in “Linea Diretta Club”, n° 63, Torino 2006, pag. 32-34