Kennedy

JFK, biografia di un sogno

di Fabrizio Vignati

Una nuova biografia rivela molti aspetti sconosciuti sulla vita del Presidente più amato nella storia d’America, ucciso prima di poter sottoporre alla prova dei fatti il suo progetto di un mondo migliore.

Dallas, 22 novembre 1963, ore 12.30. Tre colpi esplosi in rapida successione. Il sedile posteriore della Lincoln decappottabile nera si macchia del sangue di John Fitzgerald Kennedy. Lee Harvey Oswald, uno psicolabile vissuto nella Russia comunista e apertamente schierato con i castristi, ha assassinato il Presidente degli Stati Uniti sotto gli occhi dei servizi segreti più potenti del pianeta. L’America si ferma. Per molti è la fine di un sogno.

È stato il gesto di un folle solitario, come ha concluso la commissione di inchiesta presieduta dal giudice Warren, o piuttosto un complotto ordito dai servizi segreti americani, dai sovietici, dai castristi, o ancora, dalla potente mafia italo-americana? A oltre quarant’anni di distanza, l’omicidio Kennedy è “un caso tuttora aperto”, come recitava il sottotitolo di JFK, il fortunato film di Oliver Stone. Se tuttavia la morte di Kennedy e la sua breve carriera politica sono state oggetto di libri, inchieste televisive e film, il grande pubblico ha forse avuto meno occasioni per conoscere più da vicino i 46 anni della sua vita, un vuoto biografico che tenta di colmare JFK – John Fitzgerald Kennedy, una vita incompiuta, testo monumentale scritto da Robert Dallek – già biografo del successore di JFK, Lindon Johnson – e pubblicato in Italia da Mondadori.

Storia di un’occasione persa

Basata su testimonianze dirette e su materiale d’archivio prima d’ora inaccessibile, l’opera di Dallek consegna al lettore il profilo più realistico dell’unico – finora – presidente americano di fede cattolica. La scelta di impostare la biografia più sull’uomo che sullo statista risponde a un sentimento ancora oggi diffuso negli Stati Uniti, il rimpianto per una grande occasione persa, per un sogno spezzato, che avrebbe potuto cambiare il corso della storia dell’umanità.

Il libro si apre con l’ascesa di Joe, patriarca dei Kennedy, un uomo di origine irlandese che guadagnò il primo milione di dollari a 35 anni grazie a spericolate speculazioni, al cinema e ai liquori, capace però anche di costruire – insieme alla moglie Rose – una solida famiglia cattolica di ben nove figli. Al secondogenito, nato il 29 maggio del 1917, fu dato il nome di John Fitzgerald.

Il futuro presidente trascorse un’infanzia dorata, in una delle famigli più ricche d’America. Bambino vivace e sportivo, con una naturale rivalità con il fratello maggiore Joe, John ebbe fin dalla tenera età una salute cagionevole, che lo obbligò a trascorrere diversi mesi in ospedale. Un aspetto, quest’ultimo, che percorre come un filo rosso tutta la vita di JFK, tenuto nascosto dai suoi collaboratori ma approfondito e ben documentato da Dallek, che è riuscito a consultare le cartelle cliniche delle sue degenze ospedaliere. Nonostante ciò, il padre lo educò spingendolo a primeggiare in ogni campo. A vent’anni lo mandò in Europa a fare un lungo viaggio – degli italiani scrisse che “sono la razza più chiassosa che esista” – per approfondire la conoscenza dello scenario internazionale. Laureatosi ad Harvard nel ’40, allo scoppio della guerra John prese servizio in marina, nel Pacifico, guadagnandosi il titolo di eroe per aver salvato alcuni compagni dispersi.

Con la scomparsa di Joe, caduto in guerra, il padre inizia JFK alla carriera cui era destinato: la politica. Dotato di fascino e di uno stile aristocratico, nonché di notevoli mezzi economici, JFK impone la sua personalità – preceduta da una meritata fama di seduttore – nel mondo socio-politico americano. Si impegna in prima persona nelle campagne elettorali per la conquista di un seggio al Senato, cercando il consenso soprattutto tra gli operai e le massaie. Nel 1953 smette anche i panni dello scapolo impenitente – ma non quelli del seduttore, come dimostra, tra le altre, la chiacchieratissima relazione con Marilyn Monroe – per sposare l’affascinante Jacqueline Bouvier, da cui avrà due figli: Caroline e John Jr.

Nel 1960, la popolarità acquisita per la vittoria del premio Pulitzer con il il libro Profiles in courage gli offre la grande occasione: JFK è spesso ancora malato e talvolta ricoverato segretamente in ospedale, ma riceve la nomination per sfidare il Vice presidente in carica Richard Nixon nella competizione elettorale per la poltrona presidenziale. Considerato da una parte dell’opinione pubblica troppo giovane – aveva solo 39 anni – e per giunta cattolico in un paese a maggioranza protestante, il democratico Kennedy non partiva certo favorito. Era però sicuramente più abile del suo avversario nel valorizzare la sua immagine e il suo programma – rimane storico il confronto diretto trasmesso dalla Cbs, dove parlò al popolo americano calmo e rilassato, a dispetto di un Nixon teso e irrigidito -, particolare che gli diede ragione alle urne, facendogli vincere le elezioni con lo strettissimo margine dello 0,2 per cento dei consensi. “Non chiedetevi cosa il vostro paese può fare per voi, chiedetevi cosa voi potete fare per il vostro paese”: le parole conclusive del suo discorso di insediamento conquistarono l’America. Aveva puntato su valori nazionali condivisi, primo fra tutti quello della libertà. John Fitzgerald Kennedy apriva una breve ma folgorante traiettoria politica. Amato dalle donne e dai media di tutto il mondo, scatenò come nessun altro inquilino della Casa Bianca le fantasie americane, al punto che per lui e il suo entourage ci fu chi parlò della “Camelot statunitense”.

“Ich bin ein Berliner”

In soli mille giorni di presidenza, Kennedy affrontò questioni cruciali, dagli aiuti alle nazioni in via di sviluppo all’apertura ai diritti civili per i colored, dai programmi spaziali alle estenuanti trattative con Nikita Krusciov per scongiurare il pericolo di una guerra nucleare, dal confronto con Fidel Castro alle tensioni nel sud-est asiatico, che porteranno – dopo la sua morte – al conflitto del Vietnam. La sua politica internazionale fu orientata a gestire i difficili rapporti con l’Unione Sovietica, che culminarono nella crisi di Berlino del ’61 e in quella di Cuba dell’ottobre ’62, quando il mondo fu sull’orlo di una terza guerra mondiale. Dallek sottolinea che nel 1963, proprio nella capitale dell’ex Repubblica Democratica Tedesca, JFK ebbe una delle intuizioni più geniali, quella di parlare da berlinese a Berlino. Di fronte a una Germania terrorizzata dalla possibilità di un attacco sovietico, affermò: ”Duemila anni fa il vanto più orgoglioso era poter dichiarare civis Romanus sum. Oggi nel mondo libero, il vanto più orgoglioso è affermare ich bin ein Berliner”.

Qualunque sia stata la vera ragione che ha spinto il suo assassino a premere il grilletto a Dallas, conclude Dallek, quel giorno gli americani persero un presidente il cui operato fu forse caratterizzato da luci e ombre, ma che come nessun altro seppe instillare nei loro cuori il sogno di un mondo migliore. Un uomo desideroso di avviare un cambiamento, come ebbe a ricordare egli stesso all’inizio del suo mandato: “Tutto questo non verrà concluso nei primi cento giorni. E non verrà concluso nei primi mille giorni, né nel corso di questa amministrazione e forse neppure nel corso della nostra esistenza su questo pianeta. Ma dobbiamo cominciare”. Un cambiamento a tutt’oggi incompiuto, come la vita di John Fitzgerald Kennedy.

L’articolo è reperibile in: VIGNATI, F., JFK, biografia di un sogno, in “Linea Diretta Club”, n° 61, Torino 2005, pag. 28-30