Uomini di Dio

La nebbia dei monaci di TibhirineLa locandina del film Uomini di Dio

di Fabrizio Vignati

L’ultima scena di Des hommes et des dieux – il film di Xavier Beauvois che, dopo avere inaspettatamente totalizzato ai botteghini francesi quasi tre milioni di spettatori, ha ottenuto il Gran Premio della Giuria a Cannes ed è ora candidato all’Oscar – è sicuramente la più evocativa: i sette monaci trappisti del monastero di Notre-Dame de l’Atlas a Tibhirine in Algeria scompaiono nella nebbia insieme ai loro carcerieri. Che ne sarà di loro?

Beauvois – che, seguendo la documentata biografia di John W. Kiser (The Monks of Tibhirine: Faith, Love, and Terror in Algeria, St Martin Press, 2002), nel film ricostruisce efficacemente i loro ultimi anni di vita, caratterizzati dal dilaniante dilemma di salvare la propria vita, abbandonando il monastero, o essere coerenti fino in fondo con la propria missione, restando a testimoniare la loro fede nonostante le minacce dei fondamentalisti islamici – allo spettatore non lo racconta. Ma che cosa è accaduto veramente oltre quella coltre di nebbia?

Una vicenda complessa, sullo sfondo della guerra civile algerina

Facciamo un passo indietro. La vicenda dei monaci di Tibhirine – che in arabo significa «giardino» e fa riferimento al verde che circonda il piccolo monastero trappista fondato nel 1938 sulla catena montuosa dell’Atlante – si inserisce nel più ampio scenario della guerra civile algerina di fine secolo scorso. Nel dicembre del 1991 il FIS – il Fronte Islamico di Salvezza Nazionale – riportò un successo travolgente al primo turno delle elezioni, ma l’11 gennaio dell’anno successivo – cinque giorni prima del secondo turno in cui, molto probabilmente, il FIS avrebbe ottenuto la maggioranza dei seggi e il potere di modificare la costituzione – l’esercito alegerino fece un colpo di stato, annullò le elezioni e dissolse lo stesso FIS. Per cinque anni l’Algeria piombò nel caos e nella violenza. La cruenta repressione del governo – attuata per mezzo dell’esercito – suscitò, infatti, una sanguinosa serie di attentati terroristici da parte degli integralisti del GIA – il Gruppo Islamico Armato: alla fine i morti saranno circa centocinquantamila.

Soprattutto a partire dal 1993, per gli stranieri – e, in particolare, per i cristiani – la situazione divenne sempre più pericolosa: come si vede nel film, nel dicembre di quell’anno vennero sgozzati quattordici operai croati cristiani e – proprio la notte di Natale – i monaci dell’Atlas subirono la prima minacciosa incursione nel monastero. Da quel momento l’appuntamento con la morte per loro è solo rinviato, come aveva ben presente il priore Christian de Chergé (i cui scritti sono stati raccolti nel volume Più forti dell’odio, Qiqajon, 2006): «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese… Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato». Dal 1994 alla fine delle ostilità, infatti, in Algeria saranno ben 19 i religiosi «martiri» del fondamentalismo islamico.

Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, un commando armato entrò nel monastero di Tibhirine e prese in ostaggio sette dei nove monaci presenti. Seguirono due mesi di deliranti comunicati dei rapitori, di promesse di imminente liberazione da parte del governo algerino e di sempre più pressanti proteste di quello francese. Ma tutto in questa storia sembra essere avvolto nella nebbia. Quella nebbia dietro cui il regista Beauvois fa poeticamente scomparire i sette monaci, lasciando alle parole piene di amore per il nemico di Frère Christian il commento delle immagini: «Potrò immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo».

Un caso ancora aperto

Ma che cosa è davvero accaduto oltre quella coltre di nebbia? Dopo che il 23 maggio venne diffuso un comunicato dei terroristi del GIA – datato due giorni prima – a firma dell’emiro Djamel Zitouni in cui si annunciava che avevano «sgozzato i sette monaci», il 30 maggio le loro teste furono rinvenute – per terra o appese a un albero in sacchi di plastica – all’uscita di Médéa, a 80 chilometri da Algeri. I corpi non furono mai ritrovati. E da qui in poi la nebbia, invece di diradarsi, si fa ancora più fitta.

Nei quattordici anni che ci separano da quei tragici eventi, infatti, all’ipotesi iniziale – sostenuta dal governo algerino e accettata, più o meno esplicitamente, da quello francese, dal Vaticano e dai media – che individuava i fondamentalisti islamici come gli unici responsabili del massacro, sono emerse voci relative al coinvolgimento dei servizi segreti nel rapimento e, soprattutto, l’ipotesi che a provocare la morte dei monaci sarebbe stato un tentativo di liberazione da parte dell’esercito algerino non andato a buon fine. Cosa c’è di vero in tutto ciò? E’ solo dietrologia? E’ la solita teoria del complotto che nasce ogni qual volta gli uomini non riescono ad accettare la banalità di un male troppo grande per loro?

Un coinvolgimento dei servizi segreti?

Limitiamoci ai fatti. Nel 2002 Abdelkader Tigha – un ex-quadro dei servizi segreti algerini rifugiatosi all’estero – in un’intervista col giornalista Arnaud Dubus (Les sept moines de Tibehirine enlevés sur ordre d’Alger, Libération, 23 dicembre 2002) rivela che il 25 marzo 1996, cioè il giorno prima del rapimento, all’interno della caserma del “Centro di ricerche e investigazioni” di Blida, a 45 chilometri a sud di Algeri, dove lui prestava servizio come sottufficiale, erano stati approntati due furgoni per una spedizione al monastero di Tibhirine. I veicoli erano rientrati la notte tra il 26 e il 27. «Si credeva ad un arresto di terroristi – racconta Tigha – Erano, purtroppo, i sette monaci ad essere stati sequestrati. Sono stati interrogati da Mouloud Azzout [un terrorista del GIA, NdR]. Due giorni dopo, questi li ha trascinati sulle alture di Blida, poi al posto di comando di Djamel Zitouni [il capo del GIA che, di lì a poco, avrebbe rivendicato l’uccisione dei monaci, NdR], in un posto detto “Tala Acha”, costituito da rifugi sotterranei, un’infermeria di fortuna e una scuola per le reclute [dei GIA, NdR]».

Finora la testimonianza di Tigha – costretto a vivere segregato in Olanda e la cui moglie, rimasta in patria, è stata oggetto ogni tipo di intimidazioni e minacce – è stata ripresa soltanto da qualche giornalista coraggioso (ed è comprensibile, visto che Didier Contant – giornalista francese rientrato a Parigi dopo essere stato dalla moglie di Tigha per raccogliere informazioni – abbia sentito l’improvviso bisogno di gettarsi dal sesto piano, pur avendo confidato solo poco prima ad alcuni amici: «Ho l’impressione di aver messo i piedi in una storia che non riesco a controllare»…) e dal sito internet di qualche Ong: da qualche giorno, però, come ha ricordato Domenico Quirico su La Stampa (“C’è l’esercito algerino dietro l’uccisione dei sette monaci”, 11 novembre 2010), la sua «verità» è stata finalmente affidata ad un giudice francese, Marc Trévidic, che ha riaperto il caso.

Le possibili responsabilità dell’esercito e l’elicottero assassino

Secondo Tigha, quindi, dietro il rapimento dei monaci da parte dei fondamentalisti ci sarebbero stati personaggi legati ai servizi segreti: un quadro reso ancora più inquietante dal diffondersi di altre voci che farebbero dello stesso Zitouni – sconosciuto commerciante di polli, improvvisamente balzato ai vertici della più importante organizzazione terroristica del Paese e misteriosamente eliminato poco dopo il massacro dei religiosi – un infiltrato dei servizi algerini nel GIA.

Tuttavia, come scoperto un paio di anni fa dal giornalista Valerio Pelizzari (L’uomo che voleva perdonare ma non sapeva chi, La Stampa, 1° giugno 2008), esisterebbe anche un secondo anonimo testimone – questa volta francese e di solida reputazione – che avrebbe confermato che la responsabilità dell’eccidio ricadrebbe sulle autorità militari di Blida. I monaci, infatti, sarebbero stati oggetto di un finto sequestro – come quello che, nel 1993, coinvolse tre funzionari del consolato francese ad Algeri, subito liberati, per mostrare al mondo come l’Algeria fosse gravemente minacciata dai fondamentalisti, ma il governo avesse la forza di reagire – che ebbe, però, un diverso e più triste epilogo. Se a questo si aggiunge che in un’intervista – realizzata ad Helsinki dallo stesso Pellizzari (“I monaci in Algeria uccisi dai militari”, La Stampa, 6 luglio 2008) – un “alto funzionario di un governo occidentale, che in quegli anni lavorava ad Algeri” e che ha chiesto l’anonimato, afferma che i monaci, sequestrati da un gruppo islamico infiltrato dalla sicurezza militare, «furono uccisi da un elicottero [un MI 24 di fabbricazione sovietica, NdR] dell’esercito algerino», la versione di Tigha sembra trovare inquietanti conferme. «Il velivolo sorvolava la zona montuosa dell’Atlante attorno a Médéa […] – riferisce l’anonimo testimone – L’equipaggio aveva visto il fuoco di un accampamento e il caposquadriglia in persona, un colonnello, aveva sparato su quel bivacco. […] Gli uomini a bordo capirono presto che avevano colpito il bersaglio sbagliato. Il caposquadriglia chiamò il comando del reparto elicotteri distaccato a Blida, da cui dipendeva, e disse chiaramente: “Abbiamo fatto un’idiozia, abbiamo ucciso i monaci”».

Per quattordici anni alla ricerca della verità

Provando a diradare quella fitta coltre di nebbia, quindi, si potrebbero scoprire i servizi segreti algerini che – sfruttando la collaborazione di un gruppo di terroristi del GIA da loro stessi precedentemente infiltrato – inscenano un finto rapimento dei monaci, con l’obiettivo di rilasciarli di lì a poco, mostrando così all’opinione pubblica internazionale il pericolo fondamentalista e, contemporaneamente, l’efficienza del governo di Algeri nel combatterlo. Ma non tutto procede come previsto: un elicottero dell’esercito che sorvola la zona spara per errore e uccide i monaci. Il ritrovamento delle teste decapitate, l’occultamento dei corpi crivellati di colpi e il comunicato del GIA in cui si annunciava lo sgozzamento dei religiosi sarebbero, in realtà, solo una messinscena per salvare la faccia del governo algerino.

Se oggi il giudice Marc Trévidic ha deciso di riaprire il caso, andando in Olanda ad interrogare Tigha, è stato sopratutto merito di coloro che, in questi quattordici anni, non si sono rassegnati alla versione ufficiale del governo algerino: i familiari di padre Christophe Lebreton – uno dei monaci uccisi – e padre Armand Veilleux, all’epoca Procuratore dei Cistercensi – colui che, al funerale, si impuntò e fece aprire le sette bare, scoprendo che le «spoglie» ritrovate dalle autorità fossero, in realtà, costituite solo da sette teste e che, in questi anni, ha fatto proprie le parole pronunciate dalla madre di un ragazzo di colore trucidato in Sudafrica ai tempi dell’apartheid: «Voglio perdonare, ma prima voglio sapere chi devo perdonare».

A noi, in attesa che la nebbia si diradi del tutto e si scopra la verità sulla fine di Christian, Luc, Christophe, Michel, Bruno, Célestin, Paul – verità che, quale che sia, non attenua certo la grandezza del loro martirio – non resta che unirci a Enzo Bianchi (Appartenevano a un Altro e parlano a tutti, Avvenire, 20 ottobre 2010) nell’osservare che «grazie a uomini di Dio come i monaci di Tibhirine è possibile a ogni vivente sulla terra credere che l’amore è più forte dell’odio, che la vita è più forte della morte, perché solo chi ha una ragione per morire può anche avere una ragione per vivere».

 

L’articolo La nebbia dei monaci di Tibhirine è stato pubblicato nel 2010 su Testata d’angolo, il magazine web fondato da Alessandro Meluzzi.